Il delitto di Cogne, fin dall’inizio, ha attirato una straordinaria attenzione mediatica, al di là della spiccata efferatezza dello stesso, essenzialmente per la particolare tipologia della vittima, un bambino di appena 3 anni d’età, elemento che, come tale, rende il crimine, già deprecabile di per sé, sicuramente ancor più odioso e riprovevole, nonché per la peculiare ubicazione della scena del crimine, ossia all’interno dell’abitazione della piccola vittima, cioè non soltanto nel luogo dove normalmente i minori ricevono il massimo della tutela possibile dai pericoli esterni, ma, addirittura, sul letto dei propri genitori, vale a dire proprio laddove normalmente ogni bambino piccolo cerca affetto e protezione.

I fatti

Per quanto riguarda, più in particolare, la dinamica dei fatti, la mattina del 30/01/2002, dopo che, intorno alle 7:30, il padre, Stefano Lorenzi, esce di casa per andare al lavoro, più tardi, alle 8:16, esce di casa anche la moglie, Annamaria Franzoni, per raggiungere il figlio maggiore, Davide, uscito anch’egli di casa pochi minuti prima, ed accompagnarlo alla fermata dello scuolabus, ubicata a circa 330 mt. di distanza, per andare a scuola, lasciando temporaneamente l’altro figlio, Samuele, solo in casa, il quale, al ritorno della madre, alle 8:24, ossia dopo soli 8 minuti di assenza, veniva ritrovato da quest’ultima in un lago di sangue, sul letto coniugale. Cosicché la stessa madre chiama subito i soccorsi che arrivano a distanza di pochissimi minuti, dopodiché il bambino viene successivamente trasportato, in elicottero, all’ospedale di Aosta, laddove ne viene constatato l’avvenuto decesso.

A quel punto i Carabinieri mettono subito l’intera casa e la zona immediatamente circostante sotto sequestro ed iniziano delle indagini serratissime, nonostante le quali, tuttavia, l’arma del delitto non verrà mai ritrovata. Viene anche eseguito l’esame autoptico del cadavere, durante il quale vengono accertati ben 17 colpi alla testa, ma non si riesce, in alcun modo, ad accertare, con sufficiente certezza, l’orario della morte e della fatale aggressione.

Processo

In ogni caso i sospetti si addensano ben presto sulla madre, quale unica persona quasi sempre presente all’interno della casa, tant’è che la stessa viene, poi, arrestata, processata e condannata, in primo grado, a 30 anni di reclusione. Nei successivi gradi di giudizio, pur riducendosi la quantificazione della condanna a 16 anni di reclusione, viene comunque confermata la colpevolezza dell’imputata, tant’è che la Franzoni sconta fino in fondo la propria pena, tra reclusione ed arresti domiciliari, fin quando, in data 07/02/2019, a distanza di 17 anni dal delitto, viene rimessa in libertà.

Prove materiali

A questo punto, dall’analisi non soltanto della fase investigativa, ma anche dello sviluppo dell’intero iter processuale, nel corso dei tre gradi di giudizio, ci si accorge ben presto dell’emergere di una serie di criticità, che inducono, allora, ad un’attenta riflessione sull’effettiva congruità della suindicata triplice condanna di colpevolezza pronunciate nei confronti della Franzoni.

Innanzitutto dev’essere evidenziato che si è trattato, nel caso di specie, di una condanna senza prove materiali, ma, bensì, fondata soltanto su elementi indiziari, per effetto della totale assenza di reato in flagranza, ovvero di una confessione dell’imputata, o di una qualsiasi ulteriore forma di ammissione incriminante della stessa, a fronte, invece, di atteggiamenti e dichiarazioni ritenute sicuramente sconvenienti della Franzoni, quali la condizione di calma apparente sia nella primissima fase di richiesta di aiuto, seppur apertamente contraddetta da un’angosciata trascrizione della telefonata al 118, sia, poco più tardi, all’arrivo dei primi soccorritori, oltre all’immediato desiderio di avere un altro figlio inopportunamente manifestato nell’immediatezza al marito proprio durante il trasporto del bambino in ospedale ed, infine, l’effettivo concepimento di un altro figlio, Gioele, a distanza di pochi mesi, dato, poi, alla luce a quasi un anno esatto dalla morte di Samuele.

“Chi altri se non la madre?”

Per capire, allora, su quale base sia stata effettivamente condannata l’imputata, si deve constatare che, in effetti, l’elemento che, più di ogni altro, ha giocato contro di lei è stata la sua presenza in casa pressoché ininterrotta nel corso di quella tragica mattinata, per cui la condanna é scaturita essenzialmente dall’assioma “Chi altri se non la madre?” Sembrerebbe, infatti, che nessun altro abbia avuto l’occasione oppure il movente per uccidere Samuele, se non la madre, con il fondato rischio, tuttavia, che la forza cogente di questo assioma abbia, però, in qualche modo, pesantemente condizionato anche le indagini degli inquirenti, i quali sembrerebbero, dunque, aver soprattutto cercato conferme della colpevolezza della madre, piuttosto che cercare oggettivamente l’assassino, chiunque egli, oppure ella, fosse.

Ma non solo, poiché, dall’analisi dei dettagli di questo caso, si nota, in effetti, la presenza di importanti criticità riguardanti vari aspetti dello stesso, a partire dalle circostanze esecutive del delitto, per proseguire con le ulteriori circostanze di tempo e di luogo dello stesso delitto, oltre a quelle scaturite dall’azione dei soccorritori, per finire con la rilevazione di gravi carenze oggettive della presente fattispecie.

Bloodstain Pattern Analysis

In merito alle circostanze esecutive del delitto, va rilevato, in particolare, l’utilizzo della tecnica innovativa della Bloodstain Pattern Analysis, in sigla la BPA, per analizzare minuziosamente le ingenti macchie di sangue presenti sulla scena del crimine, dalla quale emergono significative deduzioni attinenti al pigiama ed agli zoccoli della Franzoni, che sarebbero stati presumibilmente indossati dall’assassino mentre colpiva ripetutamente il piccolo Samuele, stando in ginocchio sul letto matrimoniale nella stanza da letto dei coniugi Lorenzi, anche se, a ben vedere, emergono, altresì, non trascurabili differenze, seppur con l’uso dello stesso strumento investigativo, tra le conclusioni dei RIS e quelle del CTU del giudizio di primo grado, che sono rimaste sostanzialmente prive di spiegazioni. Infatti secondo i RIS l’assassino indossava certamente la casacca del pigiama, senza alcuna certezza, invece, sui pantaloni, mentre il CTU è arrivato a conclusioni diametralmente opposte, ossia che l’assassino indossava certamente i pantaloni, senza alcuna certezza, invece, sulla casacca. Tant’è che, all’esito della perizia, si è resa necessaria, a quel punto, una peculiare interpretazione dei giudici di merito, validata, poi, anche dalla Cassazione, per affermare, con il rango di verità processuale, che l’assassino, durante la fatale aggressione, indossasse certamente entrambi gli elementi del pigiama. Ma, a ben vedere, ci sono anche altre domande rimaste, invece, totalmente prive di risposte.

Non si comprende, infatti, ammesso che l’assassino fosse posizionato in ginocchio sul letto indossando entrambi gli elementi del pigiama mentre colpiva, com’è possibile, allora, che siano state effettivamente repertate tracce di sangue, in particolare, sui pantaloni del pigiama, sia nella parte inferiore, ossia dal ginocchio alla caviglia, nonché sulla parte posteriore degli stessi pantaloni, all’altezza della cintura? Per essere attinto in questo modo dalle gocce di sangue ritrovate in tutta la stanza, l’assassino avrebbe dovuto essere in piedi sul letto, almeno temporaneamente, anziché in ginocchio, e, ad un certo punto, anche trovarsi girato di spalle mentre continuava a colpire la testa del bambino. Ma non si comprende in che modo, allora, abbia potuto materialmente proseguire l’aggressione e non solo, poiché, in effetti, se fosse stato in piedi, presumibilmente non si sarebbe neppure formata la c.d. void area sul piumone posto sul letto. Insomma, in un modo o nell’altro, la ricostruzione delle modalità dell’aggressione, così come emerge dalle risultanze investigative e processuali, appare, francamente, inverosimile.

Tempo e luogo

Ma anche le circostanze di tempo e di luogo lasciano alcune significative perplessità in quanto, dalla ricostruzione dei movimenti della famiglia Lorenzi nella mattina dell’assassinio, emerge che l’assassino, se fosse stato un esterno, avrebbe avuto un ristrettissimo arco temporale per eseguire l’omicidio e per far perdere, subito dopo, le proprie tracce, durante la breve assenza della madre, mentre se, invece, fosse stata proprio lei si pongono ulteriori interrogativi di non facile soluzione. Infatti, ipotizzando realisticamente che il piccolo Samuele, mentre veniva colpito, abbia emesso almeno qualche grido, se non altro, subito dopo i primi colpi, è mai possibile che non sia stato udito affatto dal fratellino maggiore che pure era in casa, se la colpevole fosse stata la madre? Ipotizzando, invece, che il delitto fosse avvenuto nel frangente in cui Davide era già fuori dalla casa, in attesa della madre, quest’ultima, rimasta in casa da sola con Samuele, non avrebbe, forse, avuto il tempo sufficiente per compiere tutta una serie di operazioni, quali portare il bambino nella propria stanza da letto e colpirlo ripetutamente fino a fracassargli il cranio, lavarsi per eliminare tutte le gocce di sangue e di materia cerebrale che quasi certamente gli saranno inevitabilmente cadute sul volto e sulla testa, fra i capelli, atteso che, subito dopo, durante la fase dei soccorsi, dette tracce ematiche non sono state notate da nessuno, per poi cambiarsi d’abito, lasciando il pigiama in maniera un po’ casuale sul letto, salire al piano di sopra per mettersi gli stivaletti neri e lasciare sul posto gli zoccoli, dove verranno successivamente repertati dai Carabinieri, ed uscire di casa in buon ordine, senza chiudere a chiave la porta d’ingresso, per accompagnare, per l’appunto, il figlio Davide alla fermata dello scuolabus che è arrivato puntuale alle 8:20, allorché madre e figlio erano appena arrivati sul posto da pochi istanti.

Soccorritori

Occorre tener conto, inoltre, delle possibili criticità derivanti dall’intervento dei soccorritori, poiché l’azione salvifica degli stessi potrebbe aver gravemente compromesso l’integrità della scena del crimine, per cui ne risulterebbero parzialmente alterati anche le risultanze della suindicata BPA e, forse, cancellato, oppure, più probabilmente, confuso con altri riscontri degli stessi soccorritori, eventuali tracce organiche, di qualunque specie, quali lacrime, sudore, saliva, capelli, frammenti di unghie, oppure semplicemente impronte, lasciate quasi sicuramente dall’assassino, mentre compiva il proprio macabro rituale durante il quale, proprio per le peculiari modalità esecutive dello stesso, per forza di cose, sarebbe stato assoggettato ad un forte stato di concitazione, per cui è improbabile che l’intera sequenza di colpi sia stata realizzata in maniera “pulita” ed asettica. Tuttavia tali tracce sarebbero risultate di particolare rilievo soltanto qualora appartenenti ad un soggetto esterno, mentre se, invece, fossero state rinvenute tracce riconducibili ad uno qualsiasi degli abitanti di quella casa, soprattutto della madre, visto che lei stessa dormiva abitualmente proprio da quel lato del letto, non avrebbero certamente assunto tale rilievo.

Movente, arma e orario del delitto

Non possono sfuggire, infine, le gravi carenze oggettive della presente fattispecie, laddove manca pur sempre un movente, il reperimento dell’arma del delitto, mai ritrovata dagli inquirenti, e l’impossibilità di accertare, con sufficiente approssimazione, l’orario in cui è avvenuta la fatale aggressione, tenendo presente che, con la Franzoni quasi sempre presente in casa, uno slittamento anche di pochi minuti, determina inevitabilmente la conferma ovvero la smentita della responsabilità penale. Tutti elementi che, dunque, non possono non avere un peso specifico per il corretto inquadramento della presente fattispecie.

Le scelte difensive

Da ultimo non può non esser considerato un ulteriore e peculiare aspetto che, si sicuro, non ha certamente agevolato la posizione della Franzoni. Il riferimento, in questo caso, è alla Difesa tecnica dell’imputata e quindi alle relative scelte strategiche che avrebbero dovuto sempre avere come obiettivo primario gli interessi, per l’appunto, non di un imputato astrattamente considerato, ma della singola imputata Annamaria Franzoni. Infatti, al di là del tentativo, da cui, subito dopo la condanna di primo grado, è scaturita la vicenda nota come Cogne – bis, ciò che appare difficilmente comprensibile è la scelta del rito abbreviato come strategia difensiva nel caso di specie, poiché, con lo sconto di pena previsto per legge in cambio di un’ammissione di colpevolezza, al fine di ridurre, quanto più possibile, la durata della fase istruttoria del processo, si tratta, evidentemente, di una singolare scelta strategica che ben si attaglia ad un caso in cui la colpevolezza dell’imputato sia palesemente evidente, ma non certo, invece, ad un caso controverso ed articolato come quello di specie, tant’è che più volte, nella motivazione della sentenza di Cassazione, viene fatto esplicito riferimento, in senso critico, alla predetta scelta difensiva, per spiegare che, in fondo, la complessiva fase istruttoria del processo, nell’arco dei tre gradi di giudizio, è andata ben oltre i normali limiti di un rito abbreviato.

Una tesi alternativa?

Alla luce di dette evidenti criticità, occorre verificare, allora, se possa realmente ritenersi credibile un’ipotesi alternativa a quella della madre assassina. In proposito dev’essere richiamata la c.d. “tesi Lavorino” ossia l’omonima ricostruzione di un Autore, notoriamente impegnato in vari casi di alta rilevanza criminologica, con lo scopo, per l’appunto, di verificare se, nel caso di specie, un’aggressione proveniente dall’esterno debba ritenersi concretamente possibile.

Tale ricostruzione, basata su alcune affermazioni della Franzoni ritenute aprioristicamente veritiere, si caratterizza per almeno tre aspetti essenziali. Innanzitutto l’aggressore, appostatosi nei pressi della casa, in attesa del momento propizio per entrare, all’uscita della Franzoni, si era certamente procurato, in qualche modo, la chiave per poter comunque accedere alla casa senza dover necessariamente sperare in un colpo di fortuna, quale quello della porta non chiusa a chiave, deciso all’ultimo istante, all’uscita della Franzoni, mentre si apprestava ad accompagnare il proprio figlio maggiore. In secondo luogo l’introduzione in casa non aveva, con ogni probabilità, lo scopo iniziale di uccidere Samuele, ma, piuttosto, di realizzare, proprio all’interno della camera da letto coniugale, una qualche forma di azione dimostrativa, non meglio precisata, nei confronti dei coniugi Lorenzi. Per cui l’uccisione del bambino deve ritenersi, allora, un fatto sopravvenuto, scaturito dalla necessità di non essere identificato, il che implica che fosse persona nota allo stesso, visto che se l’è trovato di fronte inaspettatamente. Da ultimo, una volta realizzata l’aggressione, per uno scatto d’ira e di frustrazione incontrollabile, si è reso conto di essersi intrattenuto nella casa più tempo di quanto avesse originariamente preventivato, per cui, al fine di non farsi scoprire al rientro della Franzoni, non è uscito immediatamente dall’abitazione, ma è rimasto nascosto al piano superiore rispetto alla porta principale dell’abitazione, lì ha atteso il rientro della Franzoni e poi, allorché lei si è diretta al piano inferiore dov’era la camera da letto, ha lasciato la casa indisturbato. E ciò, allora, spiegherebbe anche il fatto che, benché la Franzoni abbia dichiarato di aver richiuso la porta a chiave al suo rientro, la stessa porta è stata, invece, successivamente trovata aperta, il che implica che sia stata aperta dall’interno, a questo punto proprio dall’assassino in fuga, visto che nessuno dei soccorritori è passato da quell’ingresso. Tale ricostruzione, pur avendo il pregio di aprire nuove prospettive investigative, non tiene conto, tuttavia, di tutti i reperti trovati sulla scena del crimine, con particolare riferimento al pigiama ed alle ciabatte della Franzoni che, secondi i giudici, erano indossati dall’offender durante l’aggressione, per cui anche questa ipotesi, così come quella della madre assassina, lascia comunque talune domande senza risposta.

Oltre ogni ragionevole dubbio

Resta da chiarire, allora, in che modo i Giudici abbiano potuto pronunciare tre sentenze di condanna, in altrettanti gradi di giudizio, soprattutto alla luce della previsione, di cui all’art. 533 I° comma cod. proc. pen., che richiede esplicitamente il superamento di ogni ragionevole dubbio per pronunciare una sentenza di condanna. In tal senso va precisato che, laddove non sia concretamente possibile raggiungere un livello di certezza assoluta, può ritenersi sufficiente anche il raggiungimento di un elevato grado di probabilità. Ed i Giudici, nel caso di specie, hanno ritenuto integrato quest’ultimo livello in considerazione, soprattutto, del fatto che la Franzoni, proprio per la sua presenza in casa quasi ininterrotta, sia stata l’unica persona che abbia realmente avuto modo di poter portare a termine la fatale aggressione. Ritorna, così, l’assioma “Chi altri se non la madre?” Ma, in mancanza di un chiaro accertamento del movente, del reperimento dell’arma del delitto, nonché dell’accertamento dell’esatto orario della morte, da cui scaturisce, a ritroso, l’oggettiva impossibilità di stabilire, con ragionevole certezza, anche l’orario dell’aggressione, oltre a tutta una serie di altri dubbi, già richiamati, attinenti alla concreta modalità esecutiva del delitto ed alle fasi immediatamente successive allo stesso, non sembrerebbe così pacifico e lineare, a questo punto, potersi ritenere che l’intero castello accusatorio, costituito, in effetti, soltanto da un’insieme di elementi indiziari, neanche sempre, in realtà, gravi, precisi e concordanti, possa effettivamente rappresentare il necessario presupposto giuridico richiesto dal richiamato art. 533 I° comma cod. proc. pen., per pronunciare una sentenza di condanna.

Influenza mediatica

Non può essere esclusa a priori, tuttavia, la possibile influenza mediatica sulle valutazioni dei Giudici nei vari gradi di giudizio. Ciò emerge da un peculiare passaggio della motivazione della Cassazione, laddove gli Ermellini, ad un certo punto, abbiano sentito l’impellente necessità di chiarire qualcosa che, in effetti, non c’era alcun bisogno di chiarire, ossia che la grande attenzione mediatica sul caso abbia avuto come effetto un rafforzamento delle garanzie dell’imputata di imparzialità e di distacco da parte dei Giudici. Ma, a ben vedere, l’esistenza stessa di un siffatto passaggio nella motivazione, da conto, piuttosto, di una possibile influenza che, in qualche modo dev’essersi manifestata a detrimento dell’imputata, se non altro per non lasciare impunito un delitto che ha coinvolto e sconvolto un’intera Nazione. E ciò spiegherebbe anche il fatto, in effetti piuttosto singolare, che in un caso così controverso, sotto vari profili, si siano comunque registrate tre sentenze all’unisono nei vari gradi di giudizio, senza alcun contrasto di giudicati. A questo punto, però, pur con tutte le perplessità emerse, tenuto conto che, in ogni caso, una persona è stata processata, condannata ed ha, ormai, anche espiato la pena inflittagli per un atroce delitto, deve ritenersi auspicabile che almeno sia stata, per l’appunto, condannata la vera assassina, se non altro per non essere costretti ad aggiungere, alla già nutrita schiera di domande rimaste prive di risposta, quella, probabilmente, più inquietante: e se alla fine si dovesse scoprire che è stata condannata una persona innocente, con il vero assassino rimasto tuttora in libertà?

Hi, I’m Alberto Del Prete

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